finalmente uno spot nel quale il corpo usato è quello di un uomo non quello della donna, come sempre accade.Obbiettivo raggiunto ma perché indignarsi?per aver detto il giusto?io non ci trovo niente di sconcioUltimamente la gente si indigna per ogni fesseria. E fatevi una risata Foto do un uomo nudo con la pancia, a fianco il nome della palestra che ho oscurato per non fare pubblicita'. In tanti si sono indignati per questi cartelloni, ma se ne è parlato tanto ed il pubblicitario ha colto nel segno. Voi che ne pensate?
la seconda storia sembra risalire a tempi ddei miei noni Persone di altri tempi, con altri ed alti valori che oggi non esistono più o sono semprer più rari . Infatti Una volta una stretta di mano era un vinclo morale che ti accompagnava per tutta la vita. Oggi se non fai documenti su documenti non rivedi più nulla. Beh, sono contento di leggere questa storia che mi riporta alla mia infanzia quando queste cose c'erano ancora ed ed erano normali anche se in misura ridotta rispetto ai racconti dei nonni . Ma ora basta con la nostalgia e veniamo alla storia dell'articolo .
Un prestito di un milione di lire restituito dopo 50 anni. È questa la singolarissima storia che coinvolge Biagio Giaffreda, pensionato di Parabita (Lecce), che nei giorni scorsi si è visto consegnare un pacco anonimo contenente una lettera e 1.050 euro, ovvero il corrispettivo, circa, di un milione delle vecchie lire che suo padre Giovanni, defunto ormai 20 anni fa, prestò a un misterioso signore che ancora oggi, dopo moltissimi anni, ha deciso di mantenere l'anonimato. Lettera e busta dei soldi gli sono stati consegnati ad un amico a cui il misterioso signore si era rivolto, pregandolo di portare il tutto ai figli di colui che tanta generosità aveva dimostrato nei suoi confronti.
L'identità sconosciuta sconosciuta è motivata dal fatto che il prestito, risalente agli anni Settanta, si concretizzò attraverso una stretta di mano che solo gli uomini d'onore di una volta sapevano rispettare e con la promessa che le rispettive famiglie non avrebbero mai dovuto sapere di questa somma, da una parte concessa e dall'altra ricevuta. Ma cosa spinge lo sconosciuto signore, ormai anziano - si presume sugli 80 anni - a compiere un gesto che ha dell'incredibile? Il significato di questo atto commovente e toccante è tutto sigillato in una lettera che riporta indietro nel tempo e rimarca valori importanti della vita al di là dei beni materiali, nel momento in cui l'esistenza si fa gratitudine, riconoscenza e bellezza interiore. La lettera «Tanti anni fa, ebbi bisogno di una forte somma ed a tal motivo mi rivolsi a degli amici e conoscenti, furono tutti pronti ad aiutarmi - scrive nella lettera l'anonimo anziano -. Fra gli altri, mi rivolsi a Giovanni Giaffreda. Fece appena in tempo a farmi parlare e il giorno dopo cacciò dalla tasca i soldi richiesti e me li affidò con la promessa che nessuno doveva venire a conoscenza del prestito, neanche sua moglie e la mia. Ci stringemmo la mano e andò via».È proprio questa epistola, scritta rigorosamente a mano, che descrive la storia di due vecchi amici legati da un segreto che è andato oltre la morte di uno dei due e che continua, a distanza di 50 anni, attraverso la sensibilità e la coscienza di chi non vuole lasciare questa terra prima di aver restituito quanto gli era stato donato. Poco importa se il destinatario di questo prestito da saldare sia defunto 20 anni fa o se sia passato mezzo secolo da quel giorno, la lettera parla chiaro: «Ora potrò morire in pace». La consegna e la fiducia Il pacco anonimo, nello specifico, è stato consegnato a un rispettabilissimo signore di Parabita di cui l'anziano debitore, evidentemente, si fida ciecamente, con la preghiera di consegnare la somma di denaro e la lettera in presenza di almeno due dei tre figli del generoso amico che, tantissimi anni fa e come si descrive nella lettera, mise una mano in tasca e consegnò un milione delle vecchie lire, davvero tanti soldi per quell'epoca. Nella lettera, inoltre, si evidenzia un dubbio che ha tormentato a lungo il mittente, riferendosi chiaramente a una lista in cui, attraverso un simbolo, sono stati negli anni sbarrati tutti coloro a cui è stato restituito il denaro e il prezioso simbolo, significato di una parola d'onore data, mancava proprio accanto al nome di Giovanni Giaffreda. Una dimenticanza, di cui il signore si accorto solo qualche tempo fa, ritrovando quella vecchia lista. Il gesto nobile Da qui l'idea, ed evidentemente il bisogno, di riparare a questa mancanza, anche a fronte di un dubbio, e di restituire la somma ai figli dell'amico di vecchia data che sono rimasti molto impressionati da un gesto tanto nobile e ormai "fuori moda" per i tempi che corrono. «Ho sentito l'esigenza di raccontare questa storia pubblicamente affinché possa servire come cassa di risonanza e magari far sapere indirettamente a questo uomo d'onore che io e i miei fratelli abbiamo ricevuto il pacco e che la fiducia riposta nell'amico che ha fatto da veicolo per la consegna è andata a buon fine - racconta Biagio Giaffreda, in un misto di incredulità e commozione -. La somma di denaro è stata, in parte, devoluta in beneficenza presso il centro per anziani, sito a Parabita e siamo certi che il misterioso gentiluomo non potrebbe che esserne fiero». «Sono le tre di notte ma la mia coscienza si potrà tacitare e quindi io dormire»: è così che si conclude questo manoscritto speciale, singolare e prezioso vettore di un insegnamento di riconoscenza e lealtà appartenente proprio a quei tempi antichi che forse non torneranno mai più e che ci lasciano nostalgici e commossi.
Nella foto Massimo Di Menna con le tre figlie: a sinistra Mia, l'unica ancora in vita e a destra le figlie decedute Micol e Maia.
Massimo Di Menna è un ingeniere di 56 anni. Era padre di tre figlie:Maia, Mia e Micol, la maggiore. Nel 2020 Maia allora 12enne si ammala di un tumore al cervello. I genitori provano a curarla con i migliori medici, rivolgendosi anche all'estero, ma Maia muore nove mesi dopo.Durante il ricovero in ospedale di Maia, Di Menna domanda ad una specialista come può affrontare il lutto. Il consiglio che gli danno è quello di far vivere la figlia facendo del bene al prossimo.Di Menna fonda una società di ingegneria e con il ricavato, in silenzio, crea progetti per aiutare gli ultimi. Ex prostitute, senza tetto, disoccupati, ragazzi disagiati.Nel 2023 la figlia maggiore di Menna, Micol, si reca in Marocco per festeggiare il suo primo contratto di lavoro con il fidanzato. Micol resta coinvolta in un incidente stradale e perde la vita. Il padre per ricordarla crea un'attivita' in Rwanda per i bambini che non possono pagarsi la scuola. Attualmente è impegnato nella creazione di un Campus per le due figlie decedute, all'interno del quale è prevista la creazione di un ristorante con 352 posti a sedere, che sarà gestito da persone fragili.Il Campus si estendera' su un'area con 12.000 alberi tra Bologna, Castenaso e Medicina che prevede tra le altre cose un teatro per bambini disabili e sarà "ad uso gratuito di associazioni e cooperative sociali", dice l'ingeniere.La moglie di Di Menna e madre delle sue figlie decedute, Margherita Lanteri, sta scrivendo un libro che uscira' a giugno intitolato "Dopo torno", in memoria delle figlie."Avevo tre figlie", dice Di Menna, "me ne è rimasta una". La figlia studia Medicina, grande passione del padre. Un padre, due genitori esemplari che hanno trasformato due lutti in solidarietà e generosita' verso chi ha bisogno e dei quali Maia e Micol non possono che essere orgogliose.
poi su msn.it trovo quest altro articolo
Massimo Di Menna aveva tre figlie. Oggi ne ha una sola. In cinque anni ha perso prima Maia, la più piccola, stroncata da un tumore cerebrale a soli 12 anni, e poi Micol, la maggiore, morta in un incidente stradale in Marocco a 23 anni, mentre festeggiava il suo primo contratto di lavoro. Due lutti devastanti che avrebbero spezzato chiunque, ma che Massimo ha trasformato in un progetto di vita e memoria: il «Campus dei Campioni ( Home - Campus dei Campioni | Ristorante sociale ) ». Ingegnere con il sogno mai realizzato di diventare medico, Di Menna ha scelto di reagire al dolore costruendo qualcosa di concreto. Ha acquistato un’area verde di 21 ettari tra Bologna, San Lazzaro, Castenaso e Medicina, un bosco con 12mila alberi dove sta nascendo un centro multifunzionale: ristorante, palestra, teatro, centro sociale, officina per cooperative e molto altro. Il tutto gratuito e aperto alla cittadinanza, con una particolare attenzione a fragilità e disabilità.Il Campus è anche un modo per tenere viva Maia, la figlia più piccola. «Un giorno, mentre ero in ospedale nelle ultime settimane di vita di Maia, chiesi alla psicologa che segue le famiglie in questi casi come avrei potuto fare per sopravvivere: mi disse che potevo portare mia figlia dentro di me. Io l’ho portata dentro il Campus». I vincoli paesagistici E mentre alcune attività sono già partite, come l’asilo nel bosco, altre si aggiungono giorno dopo giorno, in un’area ricca di natura e potenzialità, ma anche di complessità: «È un progetto molto difficile – confessa lui – è un’area piena di vincoli paesaggistici. Cercavo una cosa che mi desse sollievo, ma devo ammettere che è stato un progetto davvero impegnativo. Abbiamo acquistato l’area di 5 ettari dove sorgeranno palestra, ristorante, centro sociale e preso in concessione altri 16 ettari di terreno: lì dove c’erano solo ruderi e molto abbandono, ci sarà un luogo aperto alla cittadinanza, dove tutte le attività saranno accolte gratuitamente. Sarà un’area importantissima per Bologna». Il ricordo di Micol e il libro della madre Anche Micol ha lasciato un segno: in Rwanda, una scuola per bambini in difficoltà porta avanti il suo nome. A lei e Maia è dedicato anche il libro “Dopo torno”, scritto dalla madre Margherita Lanteri Cravet, in uscita a giugno. Le loro foto sono custodite sotto due archi del portico di San Luca, a Bologna, affacciati sulla città: un omaggio silenzioso ma potente, a due vite spezzate troppo presto. E un segno che da un dolore senza fondo, può nascere qualcosa che parla ancora di vita.
Penny Boy, al secolo Massimiliano Pennella, pluripremiato tatuatore italiano di fama internazionale è il primo artista italiano ad aver firmato un’eccezionale capsule di T- shirt con il noto brand californiano Sullen Clothing, famoso per il suo stile streetwear unico e inconfondibile.Penny boy, eccellenza italiana della body art ha vinto oltre 100 prestigiosi premi internazionali, partecipando nella sua carriera ad oltre 300 convention nel Mondo di cui spesso è giudice. L'arte tatuata di Massimiliano è talmente ammirata all'estero tanto da essere ospite di eventi di fama mondiale come Il Pacif Ink & Art Expo (Usa), uno dei migliori show dedicati ai tattoo del pianeta. Massimiliano, che ha iniziato a tatuare sin dalla tenera età a Milano, è uno dei pochissimi tatuatori italiani di successo oltreoceano, nonchè vincitore di importanti riconoscimenti come il "Philadelphia Best of colour" , tra gli altri premi importantissimi riconoscimenti anche "Minneapolis Best of Traditional”, e "Atlanta of Best Traditional" e il “Chicago Best of
Traditional and best of colour”, solo per citarne alcuni, Pennella si divide tra America, Europa e Asia «È un piccolo sogno nel cassetto che si realizza per me – dichiara Penny Boy - in quanto Sullen è uno dei brand più famosi al mondo dell’industria del tatuaggio – la collaborazione con loro per questa mia esclusiva capsule di T-shirt è nata in maniera spontanea realizzando per loro un disegno che partisse proprio dalla mia arte e in cui venisse fuori il concetto della mia “dualità” in quanto nei mie disegni spesso esce questa rappresentazione della transizione da animale a donna e viceversa. In particolare per i disegni di questa capsule mi sono ispirato a questa idea della transizione principalmente tra lupo/donna e viceversa. Ho voluto rappresentare questa donna lupo che usciva dalle fiamme di un cuore dolorante pieno di spine. Un omaggio alla grande forza delle donne che sono sempre in grado di rassicurare e dare speranza anche nelle situazioni quotidiane più difficili, uscendone sempre vittoriose». Il suo è uno stile unico e inconfondibile, il più famoso e popolare è la rappresentazione della transizione da animale a donna e viceversa. Penny è cresciuto circondato da donne, per questo la sua sensibilità sul trattare l'universo femminile è unico nel suo genere. Rispetta e ama le donne in tutte le loro particolarità ed è sempre stato affascinato anche dalla selvaticità degli animali. Grazie a questa combinazione di passioni sono innumerevoli le persone che apprezzano la sua arte, cercandolo in tutto il mondo per farsi tatuare. Penny è un'artista dedito al tatuaggio tradizionale, un vero incisore di memorie per uno storytelling a misura d'arte. «Ad oggi – prosegue Penny Boy - c’è una forte connessione tra quello che è il mondo del tatuaggio, la moda, il cinema, il fashion - tutto questo è possibile solamente perché l’arte del tatto ha raggiunto nel Mondo collettivamente un livello altissimo sdoganando completamente il mondo del tattoo, facendo in modo che brand di altissimo livello potessero rappresentare i disegni e l’arte tatuata in ogni tipologia di oggetto dalle borse ai cappelli. Io credo che questo trend sarà sempre più in espansione e interconnesso ad ogni tipo di industria dello show biz internazionale. In Italia dovremmo supportare sicuramente molto di più i giovani e le persone che hanno del talento, l’Italia è conosciuta nel Mondo per le sue eccellenze ma ricordiamoci che dobbiamo sempre essere noi in primis a valorizzarle».
Maria Dolores, nonna Maria, è nata a Trepuzzi ed è stata adottata da una famiglia di Surbo. Ha festeggiato il compleanno tra i parenti e gli operatori della fondazione Filograna in cui vive da qualche anno. Ha attraversato due guerre mondiali, ha visto cambiare il mondo sotto i suoi occhi e oggi, mercoledì 9 aprile, spegne 109 candeline nella fondazione “Filograna” di Casarano, dove è la più anziana tra i circa 120 ospiti.
Ad accompagnare la signora Maria Dolores in questo traguardo straordinario ci saranno il personale della struttura, che la coccola come una regina, e i suoi affetti più cari: Marilena, Cesare e Fiorello, nipoti della donna che tanti anni fa la adottò. Maria, infatti, nacque a Trepuzzi nel pieno della prima guerra mondiale, ma fu accolta da una famiglia di Surbo dopo essere stata affidata a un brefotrofio. Un’infanzia difficile, riscattata però da un amore familiare che ha segnato tutta la sua esistenza. «Sto bene e tutti mi vogliono bene – racconta l’ultracentenaria – e poi c’è la Marilena, nc’ete lu Cesare e lu Fiorello ca me adorano». Ma il cuore di Maria non ha mai smesso di battere anche per le sue amiche di un tempo, che ancora oggi ricorda con dolcezza: «Preparavo lu tè o lu cafè… E mo? Da quando mi hanno portato qui, li ncrisce cu benane» (non hanno tanta voglia di venire, ndr). Le sue amiche, in realtà, non ci sono più, ma nessuno ha il coraggio di spezzare quella magia di ricordi che la fa sentire ancora parte di un piccolo mondo felice. Qual è il segreto di tanta longevità? Nessuna formula miracolosa, ma tanto affetto, qualche medicina, sorrisi quotidiani e piccoli piaceri: una lattina di aranciata ogni tanto, un cioccolatino portato dai nipoti e, soprattutto, la cura amorevole di chi le sta accanto ogni giorno.
MESSINA. Negli anni ’80, Anna Giordano era poco più che una bambina, quando scopre che i Peloritani, i monti dietro casa sua, rappresentano un punto di passaggio fondamentale per le rotte migratori dei rapaci, dall’Africa verso il nord Europa e ritorno. Un argomento che l’ha sempre appassionata, ma recandosi nei boschi dei monti Peloritani, scopre che esiste anche una pratica barbara e illegale, la caccia ai falchi, centinaia di bracconieri armati di fucile che uccidono i volatili per farne dei trofei.
Anna, cominciò in quegli anni una battaglia per salvaguardare le specie migratorie durante il loro passaggio, una lotta violenta in cui ha subito minacce ed atti intimidatori.
Una battaglia vinta
Insieme a Debora Ricciardi, ha fondato un’associazione per la tutela delle rotte migratorie. I bunker in cemento usati dai cacciatori, sono diventati oggi punti di avvistamento per appassionati e fotografi, che in questo periodo giungono sullo stretto da tutta Italia. In questa stagione migratoria, cominciata ad aprile, migliaia di rapaci hanno sorvolato lo stretto diretti nei paesi scandinavi. Il falco pecchiaiolo, una delle specie più minacciate, nidifica oggi sulle sponde calabresi e siciliane. Una battaglia etica e legale vinta, a salvaguardia del pianeta e del nostro territorio messinesi.
Infatti Nonostante minacce e intimidazioni, per 40 anni Anna Giordano non ha mai smesso di combattere in difesa della natura, con presidi sul territorio, in particolare nell’area dello stretto di Messina, che è una delle più importanti in Europa per il passaggio di uccelli migratori. “La soddisfazione più grande? Vedere i falchi pecchiaioli nidificare laddove prima venivano uccisi a fucilate”.Si potrebbe rimanere delle ore ad ascoltare gli aneddoti raccontati daAnna Giordano. La "signora dei falchi", come l'hanno definita molti media. E in effetti la sua vita è intrecciata con quella di questi rapaci, e più in generale con quella di varie specie di uccelli che per troppo tempo sono stati abbattuti a colpi di fucilate dai cacciatori inSicilia.
Classe 1965, Anna è da 40 anni impegnata in prima linea nellalotta contro il bracconaggioe contro chi non ha rispetto per la natura. Dapprima come attivista dellaLipu(Lega Italiana Protezione Uccelli), e in seguito nelWWF, dal 1996, quando è diventata direttrice della riserva delle Saline di Trapani e Paceco, nella Sicilia occidentale. Lo è stata fino al 2003, dedicandosi poi ad altri incarichi."Diciamo che negli anni mi sono specializzata su Rete Natura 2000 e mi sono occupata molto di tutto ciò che interessava i siti protetti a livello comunitario", ci spiega. Non possiamo non ricordare, inoltre, che Anna ha contribuito a fondare nella "sua" Messina l'Associazione Mediterranea per la Natura, che ospita un centro di recupero della fauna selvatica e che rappresenta da anni un punto di riferimento per la tutela degli animali e del territorio.L'area vicino alloStretto di Messina è un punto strategico per le rotte degli uccelli migratori. Qui Anna e i suoi compagni di lotta hanno affrontato a viso aperto i bracconieri, organizzando fin dagli anni Ottanta "campi" per presidiare il territorio e garantire un volo sicuro agli uccelli che passavano da lì. Per il suo impegno, nel 1998 ha ricevuto il“Goldman Environmental Prize", una sorta di premio Nobel per la difesa dell'ambiente, e adesso è tra ifinalisti del "Premio Ambientalista dell'anno – Luisa Minazzi" 2021. Il prossimo 3 dicembre, a Casale Monferrato, verrà svelato il nome del vincitore o della vincitrice.
Innanzitutto, che effetto fa essere tra i candidati a questo prestigioso riconoscimento?
Mi ha fatto molto piacere, sicuramente. Non me l'aspettavo, sono onorata che abbiano pensato a me e alla nostra battaglia. Uso la prima persona plurale, perché io ho avuto soltanto il merito di aver dato il la. Se fossi rimasta da sola, non avrei ottenuto gli stessi risultati. È stato un grande lavoro di squadra.
Quando si parla di bracconaggio, solitamente si pensa a Paesi lontani, all'Africa o all'Asia, e ad animali come i rinoceronti, gli elefanti o le tigri. Invece il fenomeno riguarda anche l'Italia.
Per l'esperienza che ho vissuto, conosco meglio ovviamente la realtà siciliana. E posso dire che il bracconaggio è qualcosa di molto vicino a noi. Inizialmente mi sentivo dire che la falconeria è "una tradizione". Ho capito, ma non per questo va tollerata. C'è poi una questione di mancanza di controlli: se oggettivamente non ci sono abbastanza forze dell'ordine per monitorare il territorio, è chiaro che il bracconiere sa di farla franca più facilmente. Senza dimenticare che stiamo pur sempre parlando di leggi specifiche da applicare, di specie protette da riconoscere.
Non è un caso che ti sia specializzata in scienze ornitologiche: ci vuole consapevolezza per condurre questo tipo di battaglie, giusto?
Assolutamente. Una cosa fondamentale, che ho dovuto imparare a mie spese, è che tu devi saperne sempre di più rispetto a chi combatti. Nei primi tempi non sapevamo dove passassero i falchi. Andando a cercare i luoghi dove sparavano i cacciatori, abbiamo scoperto che le rotte degli uccelli migratori cambiavano a seconda del vento (gli animali sfruttano infatti le correnti ascensionali per salire in quota e percorrere lunghi tratti del loro viaggio). Ma per prevenire e reprimere devi conoscere meglio di loro i luoghi dove andare. Il territorio è molto vasto, non puoi "inseguire" gli spari. E allora, a poco a poco, abbiamo imparato quali fossero le zone di transito. Ci è voluto tanto tempo e un impegno enorme.
Quand'è stata la prima volta che hai pensato che la tua "vocazione", per così dire, era quella alla difesa degli uccelli?
Non lo scorderò mai. Avevo 15 anni e, insieme a un mio amico di 14, ero salita al monte Ciccia, vicino a Messina. Ricordo di avere raccolto una cartuccia da terra, quando un gruppo di cacciatori ci notò. Erano tutti armati: fucili, pistole, coltelli. Ci circondarono e ci intimarono di andarcene. Io piangevo di rabbia. Avevo visto uccidere i miei primi falchi, gli esseri viventi che più amavo, perché mi hanno sempre affascinato. Scendendo dal monte, quando ho visto una farfalla posarsi su una cartuccia abbandonata, è come se avessi visto il segnale della vita che deve vincere sulla morte e ho giurato a me stessa che quella per i bracconieri sarebbe stata una delle ultime volte che facevano del male a questi meravigliosi animali. Ho avuto paura non una, 150 mila volte. Sarei una stupida a negarlo. Ma la rabbia ha superato sempre la paura.
Ma per quale motivo si sparava (e si spara tuttora) a questi uccelli, alcuni dei quali rarissimi?
La "tradizione", a cui accennavo anche prima, è nata in Calabria verso la metà dell'Ottocento. Quando c'era penuria di cibo, i falchi venivano uccisi anche per essere mangiati. I bunker di cemento costruiti in Sicilia per sparare appositamente agli uccelli risalgono invece quasi tutti agli anni Sessanta del secolo scorso. Poi ci sono altri versanti del bracconaggio, come quello relativo al traffico degli uccelli da richiamo oppure quello riguardante alla vendita di animali imbalsamati, di cui sono stata informata ma su cui non ho mai avuto un riscontro diretto.
Con i cacciatori ti sei confrontata diverse volte?
Non so dove abbia trovato l'energia allora. Ho passato anni, durante i campi, a spiegare a questa gente l'importanza dei rapaci e a cercare di mantenere la calma, perché non mancavano gli insulti e le minacce. Ricordo un giorno, a Castanea, in una zona molto vasta e difficile da controllare, dove gli uccelli passano molto bassi con lo scirocco e c'erano numerosi appostamenti. Sentendo gli spari, decisi di avvertire i carabinieri. Negli anni Ottanta i cellulari non esistevano ancora; bisognava prendere la macchina, cercare una cabina telefonica eccetera.
Quando sopraggiunsero i carabinieri, subito gli spari cessarono, perché i cacciatori sapevano che potevano essere arrestati. Si avvicinò a noi un cacciatore, che faceva da sentinella. Proprio in quel momento passò un capovaccaio, un rapace a forte rischio di estinzione, e cominciò a imprecare perché non potevano colpirlo essendoci anche i carabinieri. Insomma, gli avevamo rovinato la battuta di caccia. L'uccello si era salvato; ma se non fossimo intervenuti, avrebbe fatto molto probabilmente una brutta fine. Te ne potrei raccontare un'infinità di questi episodi.
Hai ricevuto una serie di intimidazioni, rischiando molto per proteggere la fauna selvatica…
E per far rispettare la legge! Questo è l'aspetto veramente sconcertante. Mi hanno messo i bastoni fra le ruote in ogni modo. Nel 1986 sono arrivati perfino a bruciarmi la macchina. Un'altra volta abbiamo trovato il cadavere di un falco pecchiaiolo con un messaggio indirizzato a me: "All'attenzione di quella troia di Anna Giordano. Questi uccelli si sono sempre sparati e sempre si spareranno". Col tempo sono diventata un'osservatrice sempre più attenta e ho "rotto le scatole" come si suol dire. Ho cominciato a fare denunce. Mi sono fatta conoscere, e in qualche modo mi sono fatta anche temere dai cacciatori. Ma appena muovi un passo fuori dal sentiero, sei subito notato. Il problema allora diventi tu, e non la legge.
In questi decenni di lotta, però, qualcosa è cambiato?
Alcuni cacciatori devono avere pensato che non ne valesse la pena, anche perché si rischia la galera. E in effetti alcuni ci sono finiti. Ma c'è stata sicuramente anche una trasformazione culturale. A questo proposito, ti racconto un altro episodio. Nel 2006, uno dei bracconieri che ci aveva dato più fastidio per anni e anni, anziché insultarmi, mi salutò e mi chiese se potevamo parlarci. Mi disse: "Nel 1981 ci avevi detto che prima o poi sarebbe arrivato il giorno in cui avremmo imparato ad amare questi animali, invece di ucciderli. Ebbene, sono venuto a dirti che avevi ragione". Ancora adesso mi viene la pelle d'oca a raccontarlo. Dopo di che aggiunse: "Prima a mio figlio dicevo «hai preso il fucile»? Adesso gli dico «hai preso il binocolo»?". Quel giorno capii che qualcosa stava cambiando.
Anche i progetti europei, come LIFE ConRaSi (Conservazione dei Rapaci in Sicilia), hanno aiutato ad arginare il fenomeno del bracconaggio?
Senz'altro. Pensa che fino a poco tempo fa in Sicilia le coppie di aquila del Bonelli erano una decina, adesso sono più di 40. È stato fatto un grande lavoro. Corale, come si diceva all'inizio. Dal primo campo di sorveglianza sono passati ormai 40 anni. E da quella esperienza ne sono nati altri con finalità simili. All'inizio eravamo in pochi, ma poi siamo diventati sempre più numerosi. Dai bunker non si spara più da anni. Ma attenzione, con questo non voglio dire che la piaga del bracconaggio sia completamente estirpata. Anzi, abbiamo avuto dei pericolosi casi di ritorno al passato in tempi recenti; motivo in più per non smettere mai di organizzare i campi. Però c'è una cosa più di tutte le altre che mi riempie il cuore di gioia, ed è vedere che adesso il falco pecchiaiolo nidifica nei luoghi dove prima veniva trucidato.
Foto fornite da Anna Giordano e Associazione Mediterranea per la Natura (MAN) – Centro di Recupero animali selvatici di Messina
L'iniziativa
lanciata da un team dello Ied di Roma. I ragazzi hanno distribuito a
cittadini e passanti cento panini nei vicoli intorno al Pantheon. Ecco
cosa è successo
Sono sempre di più i turisti con cellulare alla mano e zainetto in spalla che ogni giorno girano senza sosta per le strade di Roma. Il Giubileo intensifica il fenomeno dell’overturism,
già osservato nella Capitale. Un vero e proprio turismo mordi e fuggi
che riempie le piazze e sovraffolla i monumenti storici della città. Viviamo in un tempo che va sempre più veloce e di conseguenza cambia anche l'idea di viaggio. Non c’è più tempo
per sedersi a tavola a gustare un calice di vino o un piatto cucinato
in una trattoria tradizionale. Sempre più ristoranti storici sono
costretti a chiudere bottega nelle zone prese d’assalto dai turisti. Al loro posto prendono piede fast food di ogni tipo, ottimi per risparmiare tempo. È proprio questo il tema alla base del progetto Monumeat, di quattro studenti dello Ied (Istituto Europeo di Design). I ragazzi hanno distribuito a cittadini e passanti cento panini nei vicoli intorno al Pantheon. All’interno però una sorpresa. Invece di un classico ripieno tante foto dei monumenti più importanti e iconici di Roma. L’idea alla base è un parallelismo tra la
velocità tipica del fast food e quella del turismo del 2025. «Un panino
può essere divorato, la cultura no. I visitatori sono sempre più fugaci e
superficiali - spiega Edoardo Botta, uno degli ideatori - Molti
scattano una foto e corrono via senza soffermarsi davanti a ciò che
hanno davanti, proprio come chi divora un pasto senza guardarlo. Da qui
la metafora del fast food».Sono stati tanti quelli che si sono
fermati, incuriositi dall’iniziativa. Il team di studenti racconta che i
turisti stranieri hanno apprezzato e capito il progetto e il tema.
Diverso per i visitatori italiani. «Alcuni sono rimasti delusi una volta
aperto il pacchetto. Altri non hanno compreso a pieno il problema
dell’overturism e il disagio che ne consegue», precisano i ragazzi. Ma
il problema non riguarda solo il sovraffollamento dei monumenti o del
poco tempo di qualità speso dai gruppi in giro per la capitale. Ciò che
preoccupa è anche il cambiamento che la città sta subendo a causa di
questo fenomeno. Durante il loro passaggio al Pantheon i
giovani hanno avuto modo di scambiare quattro chiacchiere con i
ristoratori e i negozianti della zona arrabbiati e stufi di questa
situazione. Il team dello Ied ha spiegato che tanti di loro concordano
che il mercato economico in città si sta trasformando in modo
irreversibile.«Roma per adattarsi a questo nuovo modo di
viaggiare cambia il suo approccio al commercio. Lì dove prima c’era un
negozio o una bottega storica oggi c’è un fast food o qualsiasi cosa che
risponda ai bisogni del turismo» continuano gli studenti. Una
provocazione quella dei quattro ragazzi che vuole mettere in luce una
città sempre più schiava dei suoi visitatori e che lascia sempre meno
spazio alle realtà storiche e all’approfondimento della cultura
La morte di una persona a prescindere dal suo passato ed appartenenza politica è sempre un fatto triste, ma noto che tanti inviano condoglianze esaltanti , cuoricini e attestati di stima.
C'è persino chi scrive che era un "uomo d'onore" e non un infame. Non vedo come fa anche notare Adriano Bomboi
cosa ci sia di onorevole nei sequestri di persona, nei furti, nelle rapine e nel traffico di stupefacenti.Mi auguro che oggi la comunità di Orgosolo [ e non solo aggiunta mia ] sappia superare quella pagina della sua storia senza santificare dei falsi miti.Vale per Mesina come per altri noti banditi e altri comuni sardi.In Sardegna spesso chi adula questi falsi eroi fa parte della stessa marmaglia che giorni fa ha insultato Saviano per aver parlato della criminalità sarda. È la stessa marmaglia che tifa Putin[ [ e trump ].Ditemi, che c'è di diverso tra voi e i sostenitori della mafia presenti in altre regioni? Che c'è di diverso tra la vostra simpatia per la delinquenza rispetto all'omertà verso il crimine organizzato?Siete parte del degrado di quest'isola.In passato, il vostro ributtante senso dell'onore, in piena stagione dei sequestri, rovinò numerosi imprenditori sardi, le loro aziende e i loro dipendenti, contribuendo a tenere il territorio nel sottosviluppo.Chi oggi guarda con romanticismo a quell'epoca è solo il prodotto del degrado morale e culturale di quel contesto.
Mi chiedo anche se la prospettiva possa essere anche quella di chi ne è stato vittima o dei familiari . Provo pietà e misericordia per il vecchio malato e penso che negli ultimi giorni , in cui probabilmente si sapeva sarebbe morto a breve , lo si sarebbe potuto mandare ai domiciliari. Ciò nonostante ,però , penso che non ne si debba fare un martire, un mito o un eroe, come hanno fatto la maggior parte dei media nazionali e ai vip o spseudo tali
dal momento che è stato un delinquente, andando oltre il codice barbaricino, ed un criminale, usato dallo stato per risolvere il sequestro Farouk Kassam,giudicato e condannato !. Concludo con quanto riportato sempre sulla nuova di oggi
in particolare la parte finale << [....] Questo il personaggio ,bandito che nel passato ha incendiato l'entusiasmo di tanti , troppi, sprovveduti e che anche ieri ha fatto partire commenti più azzeccati per un santo che un criminale qual 'era Qualcuno l'ha definito pure un combattente, accostandolo a espressioni ben più fulgide della cultura sarda. Non scherziamo per favore. Ora che Mesina è morto bisogna chiedersi, comunque con colpevole ritardo, a chi giova continuare dare forza all'idea del bandito tutto coraggio , quello che scappa più veloce di chi lo insegue ? E' come applaudire il fuorilegge e non la polizia . Roba che va bene al cinema non nella realtà .
La storia del bandito buono non fa bene a nessuno, Sicuramente non alla società Sarda. Per anni questa narrazione sballata nei valori ha alimentato un esempio distorto e pericoloso per chi è più vulnerabile culturalmente, per chi non ha ancora gli anticorpi per contrastare l derive troppo pericolose Ora che Mesina non c'è più più resti la pietà per l'uomo quella sì. La santificazione No .>>
Il problema non è che Elena Cecchettin sia o no populista: lei è una vittima, le hanno strappato un pezzo di carne, nessuno le restituirà mai più niente e ha diritto di raccontare il suo dolore e il suo punto di vista.
Il problema sono le persone che stanno sempre sedute dalla parte sbagliata della storia e usano le persone più fragili come cecchini per fare hype.
Per carità, che modo terribile di profanare gli altri.
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Calano gli iscritti all'ora di religione nelle scuole italiane, ma è boom di domande per insegnare la materia. Ai due concorsi pubblici (ordinario e straordinario) banditi nel 2024 si sono presentati in oltre 18mila: per l'ordinario sono state presentate 6195 domande su 1928 posti disponibili, per il concorso straordinario le candidature sono state oltre 12mila (12713) per 4500 posti. Si tratta dei primi due bandi in vent'anni finalizzati a stabilizzare la condizione dei docenti di religione cattolica, l'ultimo era stato nel 2004. E se la prospettiva di una cattedra è una vittoria per gli insegnanti, il calo di alunni è una sconfitta per tutti, soprattutto per i ragazzi. Almeno così la pensa Moira Pattuglia, referente nazionale IRC di Anief (il sindacato dei docenti, ATA e di tutto il personale della scuola ) che in 20 anni di insegnamento della materia ha visto crescere migliaia di ragazzi dalla primaria alla secondaria di secondo grado: «È un peccato, forse non è chiaro che l'ora di religione non è catechismo. È uno spazio di confronto su tanti temi, dalla dignità della persona umana, all'inclusione, l'ambiente, i diritti e l'empatia. I ragazzi fragili di oggi ne hanno più che mai bisogno». Secondo i dati del Ministero dell'Istruzione divulgati da Uar (Uar Unione degli atei agnostici e razionalisti) tra il 2022 e il 2023 si registra un calo di 82mila ragazzi iscritti alla materia, passati da 1.096.846 a 1.014.841. Chiesa, crollo degli studenti all'ora di religione: dai dati resi pubblici, Bologna e Firenze le città italiane più laiche tra tutte Professoressa, lei è preoccupata da questi dati? Bisogna fare delle distinzioni geografiche, al sud c'è
una percentuale altissima di adesioni che diminuisce salendo lo stivale. Non sono preoccupata perché credo che sia ancora l'opzione maggioritaria : la media di adesioni è dell'85%. Sono stati aggiornati i programmi didattici nell’Intesa del 2012 e il nostro impegno è costante per ascoltare i ragazzi e supportarli nella crescita. A cosa è dovuto secondo lei questo calo? Innanzitutto il dato riporta i numeri assoluti e gli alunni sono diminuiti negli anni con il calo delle nascite. Poi la società italiana è cambiata, è sempre più multiculturale, anche se ci sono tanti stranieri che scelgono religione. Va scardinata l'idea che noi svolgiamo un'opera di proselitismo: la nostra è un'ora di cultura, formazione e educazione. In vent'anni di insegnamento sono cambiati più i ragazzi o le famiglie rispetto alla religione? Credo che il cambiamento maggiore sia quello dei ragazzi, a 16 anni la scelta di fare religione è dell'alunno. Oggi i giovani sono più fragili, crescere è difficile ma farlo nell'era dei social ancora di più. Hanno bisogno di punti di riferimento, di confrontarsi tra loro e con gli adulti su temi che li riguardano da vicino, per questo le nostre ore sono importanti. Le famiglie a mio parere sono più attente, a volte spaventate, le mie ore di ricevimento sono sempre piene, sanno che abbiamo un canale di comunicazione privilegiato con ragazzi che a volte a casa parlano poco. Cosa si perderebbe se si eliminasse l'ora di religione nelle scuole? Togliere quest'ora significherebbe togliere uno spazio di riflessione e di crescita. Noi ci occupiamo (insieme a tutte le altre discipline) anche di educazione civica, parliamo di Costituzione, sostenibilità ambientale ed economica, competenze digitali, di fake news. Tramite i dibattiti in aula sviluppiamo il senso critico dei ragazzi, diamo loro gli strumenti per capire il mondo. Parliamo di rispetto della dignità della persona umana, di empatia e di autoregolamentazione. Temi fondamentali in questo momento in cui la cronaca riporta sempre di più casi di violenza tra i giovanissimi, tra cui bullismo e femminicidi. È capitato che qualcuno che non l'aveva scelta poi ci ha ripensato? Mi è capitato più di una volta che alunni che all'inizio dell'anno avevano scelto di non frequentare le mie ore poi ci abbiano ripensato, magari spinti dall'interesse mostrato dai compagni per i temi affrontati. È sempre una grande soddisfazione. C'è qualche esperienza concreta che vuole raccontare in cui ha capito che il suo insegnamento fa la differenza nella vita e nella formazione dei ragazzi? Ci sono stati studenti che ho preso a 3 anni, alla scuola dell’infanzia e poi li ho seguiti alla primaria, secondaria di primo grado e secondo grado, accompagnandoli alla maturità. Questi studenti nel momento in cui c'è stato il Covid erano al primo anno di università: mi hanno videochiamata, insieme ad altri insegnanti, per raccontare come stavano affrontando questo momento. Mi sono emozionata: questo significa essere un punto di riferimento. Quali sono le difficoltà di fare l'insegnante di religione oggi? Io ho 18 classi: 350 alunni all'anno, non è facile seguirli tutti. Dal punto di vista burocratico siamo stati precari per anni, l'unico e ultimo concorso per la stabilizzazione si era svolto nel 2004. Ora finalmente, con l’impegno di Anief ,abbiamo ottenuto la pubblicazione due bandi di concorso (uno ordinario e uno straordinario) che consentiranno la stabilizzazione di oltre 6mila colleghi dopo anni di incarichi annuali. Una vittoria di dignità: siamo insegnanti come tutti gli altri, vogliamo essere considerati alla pari. "
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Un voto di condotta abbassato da 9 a 8. Tanto è bastato per spingere una coppia di genitori a presentare ricorso contro un liceo scientifico di Gallarate, in provincia di Varese, convinta che il figlio, uno studente di seconda superiore, fosse stato ingiustamente penalizzato. Ma il Tar della Lombardia ha respinto la richiesta, confermando la piena legittimità della valutazione scolastica e condannando la famiglia a pagare mille euro di spese legali. Dietro questo voto apparentemente “positivo”, si è consumata una disputa tra scuola e famiglia. Secondo i genitori, l’8 in condotta non rifletteva il reale percorso di crescita del figlio. Nel primo quadrimestre, infatti, il ragazzo aveva preso un 9, poi sceso di un punto
nella seconda parte dell’anno. Una flessione che, a loro dire, sarebbe stata determinata da un singolo episodio: una copiatura durante un compito di italiano, rilevata dalla docente ma mai verbalizzata. Una leggerezza, secondo la famiglia, che non avrebbe dovuto influenzare il giudizio complessivo. «Il voto di comportamento – si legge nel ricorso – deve essere frutto di un giudizio complessivo della maturazione e della crescita dell’alunno e non deve fermarsi a singoli episodi». Voto 8: penalizza o favorisce lo studente? Ma il consiglio di classe ha valutato diversamente. E, ironia della sorte, quell’8 non era stato neanche stato pensato dai docenti come punizione. Anzi, come riportato nella sentenza, il professore di educazione civica aveva proposto quel voto proprio per favorire lo studente, contribuendo a sollevare la sua media delle materie, ferma a 7,5, grazie al fatto che il voto di condotta fa media. I genitori però non l’hanno vista così: per loro, un voto inferiore al 9 ha avuto un effetto «penalizzante» e ha compromesso la posizione del figlio. Inoltre, hanno lamentato di non essere mai stati informati di presunti problemi di comportamento del figlio, accusando così la scuola di «non aver rispettato il patto di corresponsabilità tra docenti e famiglia». «Anche 7 sarebbe stato giusto» Per il giudice, chi ha agito correttamente è senza dubbio la scuola. Nella sentenza, si legge che l’8 in condotta corrisponde a un «comportamento generalmente corretto», che pur non essendo «encomiabile» o «irreprensibile» – caratteristiche richieste rispettivamente per il 9 e il 10 – risulta comunque «ampiamente positivo». La valutazione, quindi, è stata considerata coerente e persino favorevole allo studente. Il giudice, infatti, ha riportato che a complicare la posizione del ragazzo nel voto di condotta, c’è stata anche una nota disciplinare «per aver studiato un’altra materia durante un’interrogazione sui Promessi Sposi». Un comportamento che – sottolinea – «avrebbe potuto legittimare addirittura un 7 in condotta». Quanto all’episodio della copiatura, il fatto che non sia stato messo per iscritto non toglie valore al suo peso nella valutazione finale: «Il consiglio di classe può tenere a mente anche episodi non verbalizzati, se ritenuti rilevanti nel contesto educativo». Infine, il giudice ribadisce: «Il voto di 8 in condotta non ha nulla di penalizzante per l’allievo». Ricorso respinto, dunque, e una spesa da mille euro che i genitori dovranno ora sostenere. Tutto per un punto in meno in condot
Quello che è emerso è di una gravità spaventosa.Non solo don Mattia Ferrari, il cappellano di bordo della Ong Mediterranea, è stato per mesi spiato dai servizi segreti italiani. Ora viene pure fuori che due anni fa un uomo armato di cacciavite e passamontagna ha provato ad entrargli in casa, per fortuna senza riuscirci.Un episodio che all’epoca era stato archiviato come un banale tentativo di furto e che oggi secondo molti ha a che fare con lo spionaggio ai suoi danni.Don Ferrari avrebbe dovuto raccontare tutto questo davanti alla commissione Libe del Parlamento europeo che l’aveva convocato.Peccato che l’audizione sia stata bloccata e rinviata al 23 aprile per l’ostruzionismo di tutti i partiti della destra italiana con la scusa (peraltro non vera) dell’assenza di testimoni non italiani.Viviamo un tempo in cui un prete che salva vite in mare e denuncia i lager dei migranti fa talmente paura da essere spiato, controllato, perseguitato.Sembra esserci un filo rosso inquietante che collega Paragon, lo spionaggio alle ong, il caso Almasri, i rapporti con le milizie libiche e ora pure questo episodio.Solidarietà assoluta a don Mattia Ferrari, uomo di pace e di diritti, e a tutta Mediterranea.Possono rinviare quanto vogliono, rifugiarsi dietro cavilli e vizi di forma, ma prima o dopo verrà fuori la verità. E il governo dovrà rispondere di tutto quello che sa davanti a don Ferrari e a tutti i cittadini italiani.
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È finita nell’unico modo possibile.In meno di 48 ore il Comune di Roma ha ordinato la rimozione immediata dei manifesti omofotransfobici dei cosiddetti “Pro vita”.Il motivo è ovvio: perché sono illegali.“I contenuti sono connotati da stereotipi nei confronti delle persone Lgbtqi+ e potenzialmente lesivi dello sviluppo dei minori”. Fine.Negli spazi pubblici di Roma non c’è spazio per propaganda omofoba di gente che delira di “teoria del gender” e indottrinamento di bambini e usa il volto di minori per seminare odio, disinformare e discriminare persone e comunità.Ha fatto non bene ma benissimo il sindaco Gualtieri a intervenire.Aspettando che altri seguano il suo esempio